Un’umanità in viaggio: una finestra sulla situazione della Bosnia

Evitare che la sofferenza di migliaia di persone si trasformi in una semplice notizia passata dai
telegiornali: questo l’obiettivo delle tante realtà che operano in prima linea, immerse nelle tragedie che
avvengono non molto lontano da noi.
Nelle terre al confine tra Croazia e Bosnia assistiamo all’ennesimo disastro umanitario, dove i migranti
della rotta balcanica, circa mille persone, stanno trascorrendo questi terribili mesi invernali in mezzo
all’altopiano di Lipa, ricoperto di neve.
Nella primavera del 2019, ho avuto l’occasione insieme ad altri volontari di visitare e conoscere questi
luoghi guidata da Daniele Bombardi, coordinatore della Caritas italiana nei Balcani, impegnato
insieme ad altre associazioni umanitarie nell’aiutare questa umanità in viaggio, in fuga da paesi dove
la vita risulta insostenibile.
La prima impressione che si ha arrivando in Bosnia-Erzegovina è certamente quella di essere
dall’altra parte del mondo. Il viaggio, anche accomodati in una macchina lungo l’autostrada, è
complicato. Il cibo si differenzia completamente da quello a cui siamo abituati, la valuta è diversa e la
lingua incomprensibile. Tuttavia, la distanza tra noi e Sarajevo è minore di quella che ci separa da
Londra.
Il livello di impreparazione che ho constatato verso la storia recente di questi luoghi mi imbarazza
ancora oggi, ma viaggiare insieme a Daniele ci ha aiutato a comprendere meglio le vicende che lì
stanno avendo luogo.
Il flusso migratorio qui è diventato insostenibile a partire dal 2018, dopo che l’Ungheria ha bloccato il
confine e e dopo che le rotte marittime sono state sempre più bloccate. Da quel momento, i migranti
hanno modificato il percorso, passando proprio dalla Bosnia. Entrando dalla Serbia e dal Montenegro,
la gran parte di queste persone, adulti e ragazzi, dopo decine di tentativi riesce a entrare in Croazia,
per proseguire verso la meta desiderata: i Paesi dell’Europa occidentale. Questo cambiamento
improvviso ha colto di sorpresa il governo, privo di strutture di accoglienza, che ancora oggi sta
evitando di attuare un’adeguata politica di gestione del fenomeno, mancando di qualsiasi tipo di
progettazione.
La frequenza con cui cresce il numero di persone in queste zone tuttavia è veramente alta. Quando
nel 2019 abbiamo visitato i centri di accoglienza, si parlava di circa 100 arrivi al giorno, attualmente i
rifugiati in tutta la Bosnia-Erzegovina sono stimati intorno alle 10mila persone. Quasi la metà di queste
non trova posto nei campi, costretta a vivere per strada o in edifici abbandonati.
La mancata risposta da parte del governo non addolcisce l’umore degli abitanti di queste città. Questa
emergenza va infatti ad aggravare disagi economici ma soprattutto scontri culturali mai del tutto
risanati dopo la guerra conclusasi ormai più di vent’anni fa. In una città come Bihac, in cui il numero di
abitanti si aggira intorno a 60000, troviamo all’incirca 5000 migranti. Il numero non è insostenibile, ma
in mancanza di un’adeguata organizzazione, i cittadini vedono semplicemente questi fatti come una
fonte di disordine e di ulteriore ingiustizia nei loro confronti.
Aiutare queste persone renderebbe non solo meno gravoso il loro temporaneo soggiorno ma non
costerebbe materialmente nulla al governo, grazie a fondi europei già predisposti che non
comporterebbero l’utilizzo di risorse statali. Se ben gestita, la realtà dei campi di accoglienza potrebbe
portare una nuova economia locale e magari creare posti di lavoro.

Le associazioni di volontario si inseriscono quindi in questo vuoto governativo, individuando luoghi e
modalità per gestire l’emergenza, con le poche risorse a loro disposizione.
Attivamente questo consiste innanzitutto nel cercare strutture adatte ad ospitare queste persone,
durante la loro permanenza in Bosnia. Ci sono diversi centri di accoglienza in tutta la Bosnia-
Erzegovina, tutti sovraffollati e con servizi insufficienti; ad aprile 2019, cinque di questi centri si
trovavano nella zona di Bihac, tra cui quello da noi visitato, all’interno di una ex fabbrica.
All’inizio del 2020, proprio uno di questi centri è stato inaspettatamente chiuso, a seguito delle
contestazioni degli abitanti, e il governo, utilizzando la scusa della pandemia, ha spostati gli ospiti
altrove. Lontano dalla città, sull’altopiano di Lipa, dove ad oggi si contano quasi 1000 persone.
Questa sistemazione doveva essere temporanea, ideata per isolare i sospetti casi di COVID, ma con il
tempo si è trasformata in una struttura definitiva. Una struttura senza struttura: priva di acqua potabile,
riscaldamento ed elettricità, che ancora oggi non sembra poter chiudere in breve tempo.
Da questo panorama che permette ben poco ottimismo, ho comunque portato a casa una sensazione
di quotidiano impegno, che mi conferma ancora una volta come basti a volte anche un’idea piccola a
svoltare la vita di molte persone.
Alcuni volontari, lavorando ogni giorno nei centri, si erano per esempio accorti di come
inspiegabilmente gli ospiti trascorressero le giornate da soli, in silenzio. E’ paradossale pensare che
un luogo, il cui più grande problema consiste nel sovraffollamento, sia caratterizzato da una così
alienante solitudine.
Da qui nasce l’idea di un Social Cafè, un luogo allestito come un bar. Alcuni tavoli, un ping pong e una
bevanda calda per tutti. La semplicità quasi ridicola di quest’idea, all’interno di quella fabbrica, mi ha
folgorata.
E’ in queste persone che risiede la più grande speranza e forse l’unica forza per superare questi mesi
difficili. Le associazioni maggiori attive in questi luoghi sono attualmente la Caritas e IPSIA. In
relazione all’ONU, invece, opera l’OMI, Organizzazione internazionale per le Migrazioni. Come detto, il
problema principale rimane quello delle risorse, spesso non sufficienti a compiere gli interventi
necessari.
Parlare e informare è la chiave per una svolta, perché, senza una forte spinta dal basso, la politica
europea non sentirà il peso di questo silenzio. Ovviamente, anche gli aiuti pratici sono sempre
necessari, partecipazione a raccolte fondi per consentire l’acquisto in loco di vestiti, cibo e coperte,
per evitare che la scarsità di beni alimenti il nascere di ulteriori conflitti tra gli ospiti.
Chiunque volesse sostenere gli interventi della Caritas per le popolazioni migranti in Bosnia
Erzegovina e lungo la Rotta balcanica può donare on-line tramite il sito www.caritas.it

Elena Repossi

foto di Elena Repossi