Racconto del viaggio a Bihac – Intervista a don Dario Crotti

Attraversati dai volti. Un viaggio “sui
confini”

 

Vorrei descrivere l’esperienza che, con alcuni rappresentanti delle Caritas diocesane della Lombardia, ho realizzato in Bosnia (diocesi di Banja Luka) come un viaggio sui confini.

Confine,  per  definizione,  è   «zona  di  separazione,  di  passaggio,  di attraversamento». Il confine separa, divide, ma nello stesso tempo, con la sua  porosità,  consente  il  passaggio,  lo  scambio,  l’incontro  oppure  lo scontro. Il confine è pure una questione di identità, di cura di sé, sia come persona, sia come popolo: è la condizione della conservazione di un unicum, a cui, per il bene nostro e altrui, non possiamo rinunciare.

Tutti noi mettiamo per vivere e, a volte, per sopravvivere, confini tra noi e gli altri, tra noi e il mondo che ci pervade in tanti modi: è vitale conservare   qualche   confine,   per  non   lasciarci disperdere nell’indeterminazione. Ma poter andare al di là di una guerra, al di là di paesi in cui la violazione dei diritti umani è prassi scontata, al di là di manifestazioni dell’inferno sulla terra, diventa una necessità attraversare, anche fisicamente, tali confini: semplicemente per vivere e per sopravvivere, per darsi una meta, un approdo.

Il confine, il gioco, la meta

«Oggi proviamo il game», ossia il «gioco» del passaggio dei confini – così ci
dice un giovane ventenne ragazzo indiano, con un gruppetto di connazionali
suoi  coetanei,  in  un  primo  pomeriggio  di  ottobre.  Fa  ancora  caldo,  le
temperature sono al di sopra della norma, ci si può muovere con abbigliamento
estivo; anche questo incoraggia il game e fa sentire la sorte meno dura.

Al  gruppetto  dei  giovani  indiani  si  aggiunge  un  altro  piccolo  nucleo  di
afgani. Sono colpito da una cesta dentro la quale è deposta una bambina,
neonata.  Partono:  direzione  montagne,  la  loro  notte  sarà  sicuramente  nel
bosco, dove sempre più persone stanno bivaccando, per tentare e ritentare il
gioco,  che  non  è  affatto  un  gioco:  quello  di  attraversare  i  monti  per
arrivare in Croazia e da qui entrare in altri paesi europei, quali Italia,
Austria, Germania.

Ciascuno  ha  la  sua  meta,  il  suo  sogno;  ciascuno  ha  il  suo  fardello  di
malanni, di acciacchi, di traumi. Molti sguardi sono persi nel vuoto, dopo
mesi di cammino a piedi, dal Pakistan o dall’ Afganistan, dopo infinite file
per accedere ai campi profughi, dopo la scabbia, dopo tante notti passate
all’addiaccio, dopo migliaia di baci alle foto degli affetti di casa e di
preghiere elevate a un Dio che può rendere questo gioco finalmente vincente,
oltre il confine.

Attraversati dai volti

Anche  noi  abbiamo  attraversato  vari  confini  prima  di  arrivare  a  questa
destinazione.  Ma,  al  termine  del  viaggio,  ci  siamo  sentiti  attraversati,
nella pelle, da questi incontri, dai volti, dalle storie. Non siamo stati
troppo lontani dal nostro paese, eppure quello che abbiamo visto con i nostri
occhi, sui confini della «nostra» Europa, ci ha lasciato senza parole.

La  Bosnia  Erzegovina,  è  un  paese  impoverito:  dopo  la  guerra,  l’economia
stenta ed è fortissima l’emigrazione giovanile in cerca di speranza altrove.
Bihac ha circa 30.000 abitanti ed è al confine con la Croazia. È una bellissima cittadina sul fiume Una che la rende vivace e meditativa allo
stesso tempo; sole e colori dell’autunno la rendono davvero dorata. Porta ancora  su  alcuni  edifici  i  segni  delle  mitragliatrici  della  guerra  dei
Balcani.

Le scorie della guerra

Cristiani cattolici, ortodossi e musulmani vivono ora pacificamente insieme, senza ostilità; anche se, ad ascoltare qualche giovane del posto, le ferite della  guerra  ancora  riemergono,  perché  non  sono  mai  state  completamente guarite. La violenza qui è stata troppa e, per ciò, ci dicono: «qui abbiamo fame e sete in 3 lingue diverse». Da tre anni, la città si vede attraversata da schiere di giovani e di famiglie migranti. Sono altri uomini e altre donne in cerca di un approdo in Europa.

La nostra visita più toccante è stata al campo di Vucjak: un campo spontaneo non  gestito  da  alcuna  istituzione  se  non  dalla  Croce  Rossa  locale,  che distribuisce generi di prima necessità e cerca di accompagnare alle visite mediche le persone più malate. Per arrivare al campo si deve uscire da Bihac e salire per qualche chilometro su una strada sterrata.

Il campo di Vucjak

I primi segni di presenza umana si notano vicino alla chiesa del villaggio,
pressoché disabitato: una processione di uomini e di giovani (solo maschi)
con bottiglie e taniche di plastica che vanno a fare rifornimento. Nel campo
non c’è acqua, non c’è corrente. Quando si arriva colpisce il rumore di un
generatore  che  alimenta  un  groviglio  di  prese  per  caricare  i  telefoni
cellulari, strumenti vitali col loro segnale GPS che guida al confine.

Colpisce una tanica appesa a un albero, con un pezzo di sapone appoggiato su
un ramo: è la doccia comune per potersi lavare all’arrivo, prima di entrare
nel campo. La montagna è lì davanti, con i suoi colori autunnali, splendidi,
che contrastano con la miseria del campo. Vediamo le file ordinate e pazienti
di  uomini  per  andare  a  bere  un  tè  caldo  portato  dall’ONG  Ipsia-Acli  con
Caritas.  Notiamo  la  cordialità  e  il  rispetto  degli  sguardi,  ma  anche  il
dolore e la sfinitezza di viaggi giunti allo stremo delle forze.

«Questa è la mia dolce casa», ci dice, aprendo la sua tenda, un signore pakistano. «Da dove venite?» Dall’Italia – rispondiamo». «Italia it’s good –
dice lui», e chiama gli amici affinché portino una bottiglia di Coca Cola da bere insieme. Non hanno niente, eppure l’ospitalità è ancora sacra!

La confusione dentro al campo, in questo autunno, sta aumentando di giorno in giorno. Ci chiediamo: ma dove vanno? Come fanno a resistere? Cosa li spinge a vivere in condizioni così sub umane, a questo punto forse peggiori delle condizioni da cui sono partiti? O forse là le prospettive erano così buie che qui c’è già un po’ di luce?

Negli incontri con altri volontari di altre organizzazioni abbiamo condiviso
la situazione e siamo venuti a conoscenza di altri drammi. La polizia croata in alcuni casi si mostra davvero spietata: i migranti trovati al confine vengono non solo respinti, ma viene loro preso e distrutto il cellulare e le persone vengono fatte spogliare e lasciate letteralmente in mutande; e così, prive di scarpe, rispedite nel bosco.

Senza parole

Questi racconti scompaginano «dentro», fanno gridare e ripetere se questo è un uomo? Interrogano e scompaginano persino le certezze di fede e di carità.

Una cosa è certa: non è stata la nostra volontà ad attraversare il confine, ma sono stati loro, i migranti, con i loro racconti, ad attraversare noi, in
profondità, come una grazia di Dio. Sentiamo ora il bisogno di trattenere – e non solo per noi – ciò che ci è venuto incontro da sé. Sentiamo il bisogno di
trattenere e di rilasciare il tutto in un momento di profondo silenzio e di preghiera.

In Bosnia si grida in tante lingue diverse: si grida in arabo, si grida in inglese… si grida con un «ciao» detto in italiano. Per ascoltare tutte questa grida c’è bisogno di fare un grande silenzio. «L’uomo ha bisogno di caldo silenzio, e invece gli si dà un gelido tumulto» (S. Weil).

 

Don Dario Crotti

Drettore della Caritas di Pavia.